“Mistero dello Stato: Pervasività del Potere, Diffusione delle Resistenze”, testo di Beppe Caccia, 2007, ita

E’ un’atmosfera di mistero quella in cui si ritrova proiettato chiunque si cali nell’istallazione creata da A.M. Il mistero - ne ha discusso Kantorowicz - che circonda e sembra fortificare, fino quasi a farlo apparire invincibile, l’esercizio del potere politico sovrano sulla vita degli esseri umani, in ogni luogo ed in ogni tempo. E la questione cui siamo chiamati a rispondere è se questo mistero risulti insondabile, sguardo della Gorgone capace di annichilire qualsiasi pretesa di effettiva libertà da esso, e di costringere all’alternativa secca tra resa e testimonianza, oppure se questo mistero sia in qualche modo penetrabile, e in quanto tale decostruibile.

Se in fondo esso non si riveli come l’effetto di una permanente irrisolta tensione, l’aura prodotta da una relazione conflittuale, antagonistica, che del “mistero” si dimostra essere il primo motore tutt’altro che immobile. Per quanto il potere sovrano non possa che essere ricondotto in ultima istanza, e con buona pace di tante chiacchiere oggi di moda, all’esercizio della nuda forza, o meglio - come Weber ha insegnato - al tentativo di stabilire il proprio monopolio sull’uso dei mezzi di coercizione, è del tutto evidente come esso funzioni, anzi abbia da sempre funzionato attraverso la costruzione del consenso, o più precisamente - come Foucault ha insegnato - attraverso il continuo rinnovarsi di processi di soggettivazione, nel duplice significato della produzione di sudditi e di soggetti -in entrambi i casi sujet-: non semplicemente la propaganda, la formazione dell’opinione pubblica e/o la manipolazione delle coscienze, ma la vera e propria costruzione del soggetto nella relazione di potere.

Un paradigma questo che si applica proficuamente - come nell’ultima riflessione di Agamben - all’indagine sul nesso tra acclamazione liturgica e cerimoniale della sovranità, come carattere invariante del potere politico. Ma il rituale delle laudes non deve trarci in inganno: il potere, anche quando si mette in scena come tale, non è un centro che investe in termini univoci ed unidirezionali i suoi oggetti, esso è sempre una relazione, e come ogni relazione è sempre un rapporto di forza, cioè tra forze, un campo problematico ed instabile di tensione tra spinte contrastanti che lo producono in quanto relazione.

Prima e dopo il potere vi è la vita nelle sue forme irriducibilmente molteplici, vite che resistono quella riduzione ad Uno che la sovranità ambirebbe ad operare. Il sorriso beffardo che sembra proiettarsi dalle rosse figure, ciascuna uguale ma al tempo stesso irriducibilmente differente dalle altre, che popolano l’opera di A.M., è lì a ricordarci che la capillare, moltitudinaria diffusione delle resistenze precede e corrisponde la pervasività del potere, impedisce comunque che essa si affermi come dimensione totale e totalizzante.

E, come sempre più spesso accade all’arte contemporanea nelle sue espressioni più interessanti e riuscite, l’istallazione Laudes Regiae apre il pensiero in un’ulteriore direzione: quella del paradossale rovesciamento del percorso descritto dalla “teologia politica” schmittiana secondo la quale tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati è nell’apparente regressione alla “politica teologica” odierna. In fondo, sembra indicare A.M., il passaggio dalla secolare tragedia della formazione delle categorie del politico moderno alla farsa, non per questo meno carica di violenza e sofferenza, rappresentata dal riaffacciarsi della pretesa, religiosa e politica, di imbrigliamento e condizionamento della libertà delle forme di vita, non può rivelarsi che come sintomo di un’abissale debolezza del potere nei confronti dell’eccedenza, che queste stesse forme di vita esprimono.