Pare rivivere in quest’opera il combattimento che indusse Damosseno di Siracusa a uccidere Creugante di Durazzo. Una morte che Damosseno procurò deliberatamente, aprendo il pugno nell’ultimo, micidiale, colpo che gli valse la squalifica. Ma se allora era Creugante a scoprire il fianco, l’angolazione scelta da Morucchio (in cui viene estromessa la mano tesa che si sarebbe dovuta configgere nell’addome del giovane antagonista) sembra far assumere a Damosseno quella stessa, identica postura.
Il pugilato, così com’era stato istituito ai giochi olimpici nel 688 a.C., non aveva limiti di tempo, i contendenti dovevano essere atterrati oppure costretti ad arrendersi; in modo analogo, la specularità di questo dittico intende riproporre il combattimento ad libitum, finanche ad infinitum, costringendo Damosseno ad assumere l’atteggiamento di attacco e al contempo di difesa, come fosse condannato a duellare con se stesso per l’eternità.
La crudeltà dello spietato pugilatore si trasferisce però dalle Olimpiadi all’Olimpo per la scultura, vale a dire la gipsoteca canoviana di Possagno, dove il cimento del nudo corpo viene insidiato da un raptus d’ebbrezza pirica, empito a consumare la propria rivalsa nel periglioso raffronto tra passato e presente. “Ardore in pectore”: la fotografia di Morucchio è la riproduzione – e la duplicazione – di un negativo in cui l’eburneo torace dell’atleta viene convertito in una superficie caliginosa, tale da far risaltare le repère che crivellano il gesso (fessure nelle quali venivano infilati dei chiodini metallici che servivano agli sbozzatori per riprodurre la figura in marmo mantenendone le esatte proporzioni e i medesimi valori plastici).
Sono punti nevralgici, di luce-spazio-tempo, sorta di nivei nei che trapassano l’immagine per restituirle quell’aur[e]a [dimensione] del terribile, ossia del sublime, che trovavamo nella fronte corrucciata e nella muscolatura contratta, esplicitamente rabbiosa, del Damosseno scolpito da Antonio Canova.