Coniugare storia e storia della cultura con le esperienze del quotidiano e della ricerca d’avanguardia, riuscire a far coesistere il lavoro puramente artigianale con le sofisticazioni concettuali e tecnologiche che contraddistinguono, nel bene e nel male, la nostra contemporaneità, risulta tentativo non facile, ma comunque appassionante. Se poi il prodotto finale di operazioni simili si fa portatore del fascino di significati trascorsi, caricandosi, allo stesso tempo, di una vitale tensione innovativa, risulta più semplice comprendere perché certi artisti si differenzino da altri, sia nell’affermazione di una propria, particolare autonomia espressiva, sia nell’indagine di valenze semantiche e formali, capaci di conferire a quello stesso prodotto una certa dignità estetica. E’ il caso di Andrea Morucchio, al suo esordio nella difficile e complessa arte della scultura vetraria, ed ospite, in questa sua prima personale, del nuovo spazio della Galleria Rossella Junck di Venezia.
Affinatosi nella fotografia del vetro, sia antico che contemporaneo, Andrea ha potuto approfondire la conoscenza di questa materia in tutti i suoi aspetti: dalle tecniche antiche alla fase di progettazione, dal lavoro in fornace all’esposizione in musei e gallerie. In questi lavori al banco ottico, l’artista veniva così attratto da quell’intrinseca mutevolezza nell’apparire che si rivelava a seconda del tipo di incidenza luminosa, degli sfondi e del contesto ai quali erano sottoposti i manufatti usciti dalle fornaci dei maestri muranesi. Richiesto per una non comune originalità e professionalità, in pochi anni, Andrea veniva così a contatto con le esperienze di alcuni dei migliori designer del vetro contemporaneo: ad un certo punto, il passaggio dalla ricerca del comunicare l’immagine di opere altrui, alla progettazione delle proprie, è stato quasi automatico, sviluppando progressivamente un’accezione plastico-linguistica del tutto singolare. Se nella fotografia Andrea mira ad ottenere una riproduzione dell’opera che non sia solo strumento di comunicazione oggettiva, ma immagine di quanto una scultura emana da sé - e quindi chiave di lettura della stessa -, il superamento dell’apparente contraddizione tra le necessità di oggettivazione e di interpretazione è diventato il fondamento della sua ricerca artistica. Ricerca che, avendo appunto come soggetto prevalente la materia vetro, non poteva che sfociare in pura investigazione estetica.
Le forme rigorose ed estreme che Andrea realizza, rappresentano un punto di rottura con la tradizionale produzione vetraria muranese, pur utilizzando tecniche e tipi di vetro assolutamente comuni. Lo sperimentare la casualità materica nel disporsi delle varie levature al momento della lavorazione in fornace, il raggiungimento di un’organicità informale all’interno di una forma rigida, geometrica, ordinata attraverso un lavoro di molatura condotto ai limiti dell’estremo, rivelano la volontà, da parte dell’artista, di affrontare il vetro in quanto tale, non come imitazione di altre materie, né pretesto per raggiungere aridi fini oggettuali prestabiliti, e quindi scevri da qualsiasi valore artistico che possa definirsi tale. L’approccio di Morucchio al vetro - ed è approccio tutto mentale - sta nell’intuire le possibilità che esso contiene in quanto materia da scultura, sia che lo si configuri in icasticità formale, sia che lo si traduca in narrazione simbolica.
L’assemblarlo poi con un altro materiale - apparentemente contrastante come il ferro - produce nel fruitore l’effetto di trovarsi dinanzi ad oggetti rituali, evocativi, caratterizzati da una lontana, austera sacralità. Grazie ad un lavoro condotto con estrema cura e serietà, l’originalità di queste opere risiede nel fatto che Andrea è riuscito a circoscrivere il campo progettuale a quelle che sono le caratteristiche intrinseche e naturali dei materiali utilizzati, traendo proprio dalla sua propensione al rigore, quella forza ed eleganza che indubbiamente contraddistinguono le sue opere. In esse, il rapporto tra vetro e ferro diviene quasi epifanico. Le sculture di Morucchio non avendo nulla a che vedere con l’apparire puramente oggettivo, assumono, piuttosto, la fisionomia di soggetti portatori del loro manifestarsi.Da questa prima analisi, si vede quanto sia particolarmente importante per Andrea l’esigenza di mostrare ed offrire pubblicamente il prodotto del suo lavoro, non tanto in situazioni legate al puro piacere contemplativo, quanto di dirigerlo ed impegnarlo ad un aperto confronto con problematiche strettamente connaturate all’esigenza, all’etica del fare, nonché all’attenzione - che è più di una presenza - dell’uomo nel mondo.
Il video Dynamo - proposto per questa stessa occasione espositiva - ne è chiaro esempio. Partendo dall’assunto che oggi ci si trova a fagocitare immagini senza saperne più cogliere il significato - problema, questo, non tanto dell’immagine in quanto tale, ma piuttosto dell’uso che ne si fa, del come la si propone e fruisce -, Andrea ha cercato di congegnare un’operazione fondata sul tentativo di riconsegnare all’immagine il suo giusto valore comunicativo. L’esperimento non è stato certo dei più semplici, anche perché oggi, le immagini, non riuscendo più a comunicare, informano, si riciclano. Si contaminano e si reiterarono superficialmente. Si clonano a ritmi vertiginosi. Non lasciano più spazio ad alcuna riflessione, mentre il loro contenuto viene inghiottito dalla rapidità esasperata e disorganizzata con la quale si succedono. In questo senso, riconciliare l’immagine-video ad un contesto appropriato, renderla espressione depositaria di un contenuto e di un concetto come quello descritto in precedenza - grazie anche ad un accompagnamento sonoro di fresca intelligenza inventiva - diventa un’operazione mirata a far sì che l’immagine risulti - e resti - documento a benificio del fruitore, e quindi non volgare elemento di seduzione o consumo. Lame e Metallo - Dinanzi alle sculture di Andrea, la prima sensazione che ho provato è stata quella di interloquire con un qualcosa - l’ho citato in precedenza - che veniva da lontano.
Un che di ineffabile. Un qualcosa che fondava la radice, la propria ragion d’essere nella reminiscenza, pur mantenendo intatte tutte le qualità e gli attributi di un lavoro figlio di questo tempo. Quasi mi trovassi all’interno di una camera oscura, in attesa che l’acido facesse comparire l’immagine catturata dal negativo sopra la carta bianca, ancora sorda. Di fronte al dinamismo delle sue lame in vetro, a quel loro tagliare lo spazio inerte, ad incidere il vuoto - e non solo in apparenza - mi sono chiesto se c’era dell’altro al di là dell’elaborazione formale, fattore dominante in qualsiasi indagine plastica che possa definirsi tale. Mi sono chiesto se ci fosse stata una ragione altra che lo muovesse ad esprimere un qualcosa che oltrepassava la semplice sperimentazione della fusione e della molatura, ma che pure, da quelle, traeva origine e vita.
E dell’altro c’era. C’era il conferire all’oggetto-scultura valenze semantiche tali da riuscire a sviscerarne una certa aura, cercando così di riconfermare quella dignità artistica che, spesso, viene perduta nel decorativismo fine a se stesso, nella superficialità d’intenti. Risulta evidente che nelle sculture di Morucchio la lama è l’elemento iconico forte, connotante. Elemento che, allo stesso tempo, le caratterizza e ne afferma l’unicità. Tuttavia, per capire il perché di questa scelta formale, m’è parso opportuno andare a ritroso, cercando di setacciare cosa lo scibile umano ci abbia tramandato in merito al suo significato. Sin dall’antichità, le lame venivano identificate con il simbolo della penetrazione, dell’apertura. La ferita, il punto in cui la lama entra è una luce. Nella letteratura alchemica rappresentano il pensiero che introduce la luce e l’organo creatore che apre per fecondare, che si sdoppia per permettere la sintesi. La lama è il tratto di luce che rischiara lo spazio chiuso, aprendolo. E’ il raggio solare, elemento fecondante, che separa le immagini. Che non le confonde e che quindi non le riduce ad elementi fuorvianti.
Ora, quale altro materiale, meglio del vetro, contraddistinto per sua natura dalle leggi di trasparenza, luminosità e purezza, poteva permettere un lavoro di speculazione estetica fondato sulla dinamica della luce? Alcune delle lame realizzate da Andrea sembrano in stasi, dirette verso il basso. Altre paiono in movimento, destinate a trafiggere una meta. La lama, come la scala, è anche un simbolo degli scambi fra il cielo e la terra. Diretta verso il basso, è un attributo della potenza divina, come la folgore primitiva, il raggio di luce o la pioggia fecondante. In alcuni racconti mitologici, gli uomini che le divinità usano per compiere le loro opere sono chiamati i “figli della faretra”. La lama diventa così un simbolo del destino, del suo compimento fulmineo e improvviso, ma anche dell’amore, in quanto la sua forma fallica è evidente: penetra nel centro come il principio maschile si introduce nell’elemento femminile, condensando in sé yin e yang.
Lo stesso avviene in senso mistico, poiché rappresenta l’unione, la risposta divina alle domande dell’uomo. Basti pensare alla pratica della belomanzia, ancora oggi in uso presso alcune popolazioni arabe. Diretta verso l’alto, la lama si collega ai simboli della verticalità; mentre in senso lineare si collega ai simboli dell’orizzontalità, esprimendo la veridicità del tutto aerea della sua traiettoria che, sfidando la gravità, realizza simbolicamente la liberazione delle condizioni terrene. Tutto questo ha senz’altro valore relativo nelle sculture di Morucchio, ciò non toglie che, astraendole da queste considerazioni prettamente erudite e osservando attentamente il modo in cui Andrea le assembla, esse assumono una funzione del tutto particolare, proponendosi come catalizzatori e vettori di energia, esercitando - virtualmente - un influsso di attrazione, conduzione e coordinazione, conseguente al loro disporsi. Ma se di sculture si tratta, quanto appartiene alla scienza, ad un certo punto può ben tradursi in etica.
Probabilmente, la mia analisi può essere viziata da un sicuro entusiasmo interpretativo, lo riconosco. Tuttavia, la frequentazione e l’amicizia che mi lega da anni ad Andrea, mi consente di rilevare nelle sue opere alcuni concetti che contraddistinguono la sua indagine speculativa, e che d’altronde, fan parte del suo modo d’essere e di pensare. Il modo in cui l’autore colloca le sue lame - ed è qui che risiede tutta la sua singolarità in qualità di scultore - diventa rappresentazione del superamento delle condizioni normali, della liberazione immaginaria dalla distanza, dalla pesantezza, dalla noia: quasi fosse un’anticipazione mentale della conquista di un bene eccezionale. Un bene che potrebbe configurarsi con la fine dell’ambivalenza, la proiezione sdoppiata, l’oggettivazione, la scelta, il tempo orientato. In sostanza, Andrea collocherebbe immaginariamente le sue lame nella direzione in cui si ricerca l’identificazione, nel senso che solo differenziandosi un essere raggiunge la sua identità, individualità e personalità.
Le sue sculture unificherebbero dunque decisione, unificazione, sintesi, divenendo simboli di celerità e intuizione folgorante, di conoscenza e percezione rapida. In esse velocità e rettitudine vengono correttamente unite, permettendo così alla rappresentazione di proporsi più in senso dinamico che formale: i vetri di Andrea, variando il loro aspetto a seconda delle incidenze e riflessioni luminose, paiono infatti manifestare un costante intervento di forze. Lo stesso uso del metallo non sembra solo destinato alla realizzazione del supporto. Piuttosto entra in gioco come parte integrante della scultura stessa. Il nome metallo deriva da Me o Mes, che è il nome più antico dato alla Luna. La luna, si sa, è priva di luce propria e non è che un riflesso del sole, dei suoi raggi.
Alla linearità dei raggi, la luna contrappone la sua configurazione in quanto simbolo di periodicità e rinnovamento, di trasformazione e di crescita, del tempo che passa, della conoscenza indiretta, progressiva e fredda, come del sogno e dell’inconscio. La lama in vetro assume così le qualità della parte pura che si libera dal minerale grezzo, lo spirito che si libera dalla sostanza per diventare visibile. L’aspetto benefico di questa tensione spirituale, se vogliamo parlare di spiritualità nell’arte, si basa sulla purificazione e sulla trasmutazione, come pure sulla funzione cosmologica del trasformatore. Tutti i metalli sono soggetti a trasformazioni, il cui fine, in alchimia, è di trarne il soffio, la purezza assoluta. La fusione dei metalli - così come quella del vetro - è paragonabile alla morte, il soffio estratto rappresenta la virtù, cioé il nucleo o lo spirito della materia. Si ha infatti la sensazione che le lame di Morucchio, una volta entrate nel metallo, cerchino in qualche modo di liberarsene per segnare il distacco da ogni bene materiale, da ogni convenzione, affermando la propria volontà di recuperare l’innocenza originaria. Quasi volessero circoscrivere un continuo fondare e riformare.
Anche la scelta del ferro ha dunque la sua importanza. Il ferro, corrispondendo al pianeta Marte, diventa pertanto il metallo più appropriato per descrivere questa tensione degli opposti. Il ferro è robusto, duro, testardo, rigoroso, inflessibile, anche se queste qualità non trovano pieno riscontro nelle sue reali caratteristiche. E’ un metallo che inoltre ha valore sacro e profano allo stesso tempo. Può essere sia di origine meteorica, celeste, che di origine terrestre, quindi embrionale. Tra tutti i metalli, è quello più impuro, oscuro, apparentemente contraddittorio alla vita stessa. Protegge, ma può essere allo stesso tempo mortale. Ecco allora che, metaforicamente, la modificazione della materia può avvenire solo per mezzo di uno strumento tagliente, decisamente antitetico. Strumento che, indicando il passaggio dal noto all’ignoto, misura il tempo della storia.