“Non c’è dubbio, tutti hanno qualche mira su di lei, su questa città […] Lo scopo è sempre lo stesso: stupro”. Con queste lapidarie parole il poeta Iosif Brodskij denunciava l’atteggiamento di depredazione e umiliazione nei confronti di Venezia, osservato durante i suoi frequenti soggiorni in città. Una traduzione di “rape” (nell’originale inglese) sicuramente meno d’effetto, ma più adatta in questo contesto a descrivere l’installazione The Rape of Venice di Andrea Morucchio, potrebbe essere la scongiurata sparizione della città, il ratto di Venezia.
Quale mezzo più efficace di un’installazione totale, multisensoriale e multimediale, per porre lo spettatore di fronte, e addentro, a questa minaccia incombente, rendendo non solo visibile, ma anche tangibile, udibile e “olfattibile” il rischio di questa perdita imminente?
L’“installazione totale” viene teorizzata e praticata come genere artistico all’inizio degli anni Novanta da Il’ja Kabakov come la naturale prosecuzione dell’opera d’arte totale, del Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria “di cui sognavamo all’inizio del secolo”. Nell’intenzione di esprimerne il potenziale utopico, l’artista ricorre a categorie del passato: l’installazione totale nasce da un lutto collettivo, dal collasso dell’Unione Sovietica, del socialismo reale e quindi della grande utopia del ventesimo secolo, cui corrisponde, nella biografia dell’artista, l’abbandono del paese d’origine. Il suo debutto sulla scena internazionale avviene alla Biennale di Venezia del 1993, passata alla storia come la prima edizione “espansa” in una dimensione sia locale, con la proliferazione di mostre e padiglioni su tutto il territorio cittadino, sia internazionale, grazie alla partecipazione di nuove nazioni all’insegna del villaggio globale sorto alla fine della guerra fredda. Il Padiglione rosso di Kabakov, allestito per l’occasione all’interno del padiglione nazionale di un fantasma geo-politico come la Comunità degli Stati Indipendenti, è concepito come catalizzatore della memoria di uno spazio – geografico, storico, sociale – passato ma non irrimediabilmente perduto. Al contrario, si tratta di “un territorio di un mondo ancora esistente […] che aspetta la sua ora per tornare nel posto che gli spetta, da dove è stato cacciato da poco”. Nelle intenzioni dell’autore, lo spettatore, una volta entrato nell’installazione totale, deve provare un senso di familiarità e riconoscere esperienze e momenti già vissuti nella vita passata, constatandone la perdita.
Lo stesso principio è alla base del progetto The Rape of Venice: rendere il visitatore partecipe di una perdita già in atto, il ratto di Venezia. Una sparizione provocata in parte da condizioni climatiche globali, come ci ricorda la pavimentazione frammentata e apparentemente sommersa della Basilica di San Marco, in parte da fattori umani, come l’inquinamento acustico e ambientale, lo spopolamento del centro storico e il sovraffollamento turistico, fenomeni ampiamente denunciati dalla stampa internazionale e ripresi in forma di proiezione all’interno dell’installazione.
Una perdita quindi non irreversibile, ma in uno stato di progressivo avanzamento, la cui concretezza è traslata da Morucchio nella White room inaugurata per l’occasione presso Palazzo Mocenigo, museo consacrato alla tutela e alla valorizzazione di un immenso patrimonio – che non vorremmo definire minore – come l’arte applicata, tessile e profumatoria. Si tratta di una preziosa eredità culturale che concorre a definire la quotidianità della Venezia del passato, presentandola all’occhio del fruitore contemporaneo non come feticcio museale, ma come una città viva e vissuta. Si tratta di prodotti che hanno contribuito a decretare l’immagine iconica della città nella cultura popolare mondiale, nonché in tempi più recenti a intaccarla, attraverso la produzione seriale e la svendita di surrogati artistici sotto forma di souvenir e gadget a basso costo. Un’importante vetrina per la diffusione della produzione artistica e artigianale locale è stata proprio la Biennale, soprattutto in seguito all’edificazione nel 1932 di uno spazio apposito, il Padiglione Venezia, che ancora oggi accoglie le eccellenze cittadine e regionali nel campo delle arti applicate in diversi ambiti (nel 2015 è dedicato al digitale e all’alta tecnologia in Veneto).
L’installazione The Rape of Venice, anch’essa ospitata in uno spazio espositivo creato ad hoc, si presenta non come un “Padiglione anti-Venezia”, seppure la brutalità del nome potrebbe indurci a crederlo, ma come un “Anti-padiglione Venezia”: qui non sono in mostra i gioielli fragili della città, ma la fragilità stessa della città.
“Ma Venezia è «fragile», ma Venezia è «vecchia»”. Questo il bipolarismo entro il quale, secondo Salvatore Settis, si instaura il dibattito sulla città: da una parte movente per assalti indiscriminati al suo patrimonio sociale, culturale e ambientale nel nome di una millantata modernizzazione omologata su standard internazionali e in barba alle specificità locali; dall’altra, assioma inviolabile di una preservazione della città dettata da un imprudente lassismo e un ostinato immobilismo destinati a soffocare sul nascere ogni tentativo di innovazione sostenibile.
Non “ma”, bensì “appunto” perché Venezia è vecchia deve tornare a essere oggetto di politiche mirate a renderla vivibile e viva; “appunto” perché fragile, deve essere protetta e valorizzata, ma certo non imbalsamata per l’eternità. Priva di rovine, di tracce storicizzate del suo passato, e sempre ingannevolmente uguale a se stessa, Venezia si è trasformata in un mito fuori dal tempo. Secondo Aleida Assmann, “il mito è una storia fondante, che non diviene passato attraverso una sua storicizzazione, ma è dotata di un significato persistente, il quale mantiene vivo il passato nel presente di una determinata società, conferendole una forza di orientamento verso il futuro”. Affinché Venezia continui a vivere, di vita propria e del proprio mito, necessita di una prospettiva di vita a lungo termine, altrimenti sarà condannata a perire di una morte autoindotta, di un’amnesia collettiva, di una perdita della memoria di sé.
In The Rape of Venice l’artista condensa il sentore di una minaccia incombente, di questo ratto consenziente, in un’opera di ricostruzione critica e sinestetica della città. Non si tratta ovviamente di una delle tante copie di Venezia sorte, alcune come provvisorie, altre come permanenti, in giro per il mondo, da Las Vegas a Macao e Dubai, per compensare il mito della Serenissima a diverse latitudini, e che ora stanno progressivamente riducendo la distanza discrezionale dall’originale, come il discusso progetto, concepito per l’isola di San Biagio nei pressi della Giudecca, del parco a tema Veniceland. Da città dall’immenso potere immaginifico, capace di inspirare in terre anfibie a ogni angolo del cosmo Venezie del Nord e Venezie d’Oriente – ora l’originale si troverebbe nella situazione di non bastare più nemmeno a se stesso, di dover ricorrere a un suo clone, più accessibile e accattivante, e per di più nelle sue immediate vicinanze. Quando la copia cessa di essere riproduzione dell’esemplare unico, strumento di divulgazione dell’immagine primigenia, per diventare un oggetto di culto devozionale di immediata fruibilità ed entrare in competizione con l’originale? Di quanti succedanei ha ancora bisogno Venezia prima di iniziare a prendere in considerazione se stessa? L’installazione di Morucchio non intende sostituirsi a Venezia, spacciandosi più reale del reale, al contrario si definisce attraverso la sua assenza, scandagliandone il progressivo inabissamento, esprimendo il sentore – e il timore – della sua sparizione, diffondendo l’essenza della sua assenza.
Iniziatore dell’esperienza urbana sinestetica, dell’errare privo di meta come strumento conoscitivo e comportamentale, è il flâneur moderno, di cui Walter Benjamin è stato uno dei più celebri rappresentanti. Indissolubilmente connessa al culto della metropoli e delle nuove tecnologie, realtà da cui Venezia “passatista” era rimasta inevitabilmente preclusa, la flânerie rinasce nel secondo dopoguerra come esercizio di psicogeografia praticato dai membri dell’Internazionale situazionista all’insegna del comandamento: “Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta”.
Gli artisti più attivi in questo ambito, Guy Debord e Ralph Rumney, dopo aver percorso derive urbane a Parigi e Londra, scelgono come tappa successiva delle loro esplorazioni psicogeografiche Venezia, grazie all’inevitabile contrasto tra lo sguardo contemporaneo e la “risonanza sentimentale” suscitata dalla sua “vecchia estetica”. Di coesistenze e scartamenti, d’altronde, vive ogni epoca: “We love our epoch, as hard as it is. We love this epoch for what one can do it in it”.
Di questa potenzialità si nutre anche l’opera proteiforme di Andrea Morucchio, cittadino e artista veneziano. D’altronde il disorientamento e il decentramento – forse perché tutta Venezia è centro – sono parte inscindibile della quotidianità veneziana, non soltanto per visitatori e foresti, flâneurs e situazionisti, ma anche per i suoi abitanti, fonte di nuovi scorci e prospettive per i suoi artisti, costringendoli a guardarla con “occhi nuovi”. Così la pavimentazione musiva di San Marco, rielaborata da Morucchio attraverso un meticoloso lavoro di decostruzione, selezione e ri-assemblaggio delle tessere suddivise in moduli regolari, rompe le righe dei motivi ornamentali originali mostrando le infinite possibilità di combinazione e composizione di questa sacrale opera d’arte calpestabile, frammentandone la simmetria centrale in una pletora di elementi paratattici che danno vita a un mosaico personale dell’artista. D’altronde già il materiale di partenza, il mosaico pavimentale della Basilica, fruibile da una prospettiva inconsueta – ortogonale o “a piombo” – si presenta a uno sguardo straniante. Prima di comparire nella sua derivazione situazionista, il termine “straniamento” era stato utilizzato dai formalisti russi negli anni Venti per indicare quella serie di artifici atti a scardinare la “fossilizzazione” della parola e dell’immagine e quindi come supporto teorico alle pratiche degli artisti delle avanguardie, come gli scorci urbani del fotoreporter Aleksandr Rodcˇenko. Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, l’occhio umano è oramai assuefatto alla riproduzione fotografica, come se questa non avesse più nuove prospettive da proporre. Non è forse un caso che Andrea Morucchio, attivo fin dagli esordi nel campo della fotografia, in The Rape of Venice rinunci a questo medium (che egli non ama definire artistico) per concentrarsi su altre forme come le registrazioni audio, le proiezioni video, l’assemblaggio musivo o la miscela di una fragranza. Se gli artisti, fin dai tempi delle avanguardie storiche, ci hanno insegnato a guardare con occhi diversi, perché non sentire con orecchi diversi? Così l’audio dell’installazione, composto da registrazioni subacquee effettuate nei canali e in laguna aperta, offre all’ascoltatore una nuova percezione sonora della città. Mentre lo “spettatore distratto” – riprendendo un’altra intuizione benjaminiana – oggi inerme al bombardamento di immagini virtuali, è invitato a “raccogliere” la propria concentrazione per decifrare le inscrizioni proiettate che, a velocità diverse, scorrono su tre livelli paralleli. Forse l’inglese, per quanto idioma globale dei new media, permette ancora uno straniamento linguistico nello spettatore locale? Forse leggere le grida di allarme in una lingua “altra” può aiutare a “vedere” il fenomeno del ratto di Venezia a chi, di fatto, vive già sommerso in esso?
“Non ha un Nord né un Sud, non ha Est né Ovest; non ti indica una direzione, sempre e solo vie traverse. Ti circonda e ti avvolge come una massa di alghe marine sotto zero, e più ti agiti, più ti dibatti da una parte all’altra cercando di orientarti, più ti smarrisci”.
In queste concitate righe Brodskij ci riporta alle tracce olfattive di Venezia, che segnano il momento di iniziazione non solo del poeta alla città lagunare, ma anche di Morucchio al presente progetto installativo. Nel groviglio di calli e campi in cui il poeta amava smarrirsi, le alghe marine sotto zero, o forse il solo ricordo – emanato dalla sua Pietroburgo o dall’infanzia trascorsa sul Baltico – lo inebriano e stordiscono in una sorta di abbraccio gelido. Pervasiva e sfuggente, totale e straniante, l’installazione di Morucchio mette in gioco l’assenza di Venezia: un’assenza a cui l’artista contrappone un’essenza, la sua quintessenza.