“Arriva sempre un momento in cui non c’è altro da fare che rischiare” scrive José Saramago in Cecità: la stanza antologica che Andrea Morucchio ha riunito per sé a Ca’ Pesaro, per la personale in cui sì, è di ritorno, di ritorno in nero – come suonavano gli AC/DC in Back in black – nella sua città, è un compendio di opere plastiche accompagnate da un video che visualizza una stanza delle crudeltà. Sono presenze-feticcio, ascetiche ed essenziali, che si muovono verso un grado zero della visione e assommano in monocromo nero tutta la ricerca che ha guidato le forme recenti dell’artista.
Di ritorno dopo la fotografia, dopo i viaggi verso luoghi in cui il nero era sfondo cupo e brillante, profondo e sconosciuto, come nella netta essenza degli scatti cubani o del Nepal misterioso, dopo la contaminazione delle idee con la storia del passato e le urgenze della politica, Morucchio è di ritorno alla scultura, all’installazione, così come l’ha praticata, tra performance e presenza, negli ultimi dieci anni.
E’ invece un nero opaco e seduttivo, ma levigato, quello di cui è fatta l’essenza, quasi medievale, di molte delle opere in esposizione, che stanno sul limite, sulla soglia di un’apparenza di sfidante pericolosità e rivelano piuttosto la loro fragile essenza nel dichiararsi in vetro, accecando la specificità luminescente del medium.
La definizione accurata di queste forme estreme e la precisione nella manipolazione e nell’accostamento dei materiali dà origine a un dialogo ascetico e sovversivo, a un monologo dark in cui l’ascesi e la rinuncia fanno da contraltare a una spiritualità che evoca energie cosmiche e battagliere, che riconduce memorie della storia dell’arte e dell’umanità, come in un Ciclo della protesta. Il composito insieme di questo percorso recente, tutto virato al nero, si fa quête cavalleresca e al tempo stesso eretico autoritratto, come nel destino del personaggio dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenaire. Lo stabilizzarsi alchemico e il confronto delle materie, vetro e ferro, luce e fotografia, crea uno scontro visivo al fine di suscitare nel visitatore un processo mentale di alta coscienza, come scosso dalle vibrazioni del dinamismo immateriale propagato dalle opere in conflitto nella sala.
“La scultura è volume, base, altezza, profondità”, recitava uno degli assiomi del Manifesto tecnico dello spazialismo firmato anche da Berto Morucchio nel 1951: il distacco spazio-temporale, il senso di percezione ingannevole e artificioso della realtà e la forte accentrazione di forze magnetiche che dominano la varietà di espressione di Back in black non negano comunque l’essenza delle opere come scultura, le rendono anzi parti di azioni come fotogrammi di film, nel loro creare un dialogo, declinate come pezzi di cadavre esquis provenienti da un recente percorso di ispirazione filosofica. Le installazioni di Andrea Morucchio per Ca’ Pesaro si dispongono secondo un punto focale che intende creare una ferita nella percezione e mettere in pericolo l’equilibrio instabile delle sensazioni visive, accentuando la difficoltà della visione, offrendo il ritratto di una condizione umana. Come in occasione di altre sue esposizioni in ambienti museali, quasi a sfidare il luogo di conservazione e al tempo stesso esaltarne il ruolo di mementum perenne, si staglia con forza la sua intenzione di rimarcare reminiscenze adombrate da senso di mistero, inquietudine, violenza, come in Le Nostre Idee Vinceranno (2002) e Laudes Regiae (2007), così B[æ]d Time è un letto di insoffici dolori su cui non si può dormire; Cross Shoots una croce latina scismatica che contrariamente alle pretese di monocrazia religiosa può scomporsi in unità e disunità ed è inclinata, pronta alla rottura e alla protesta; il duplice torso del lottatore canoviano Damòsseno, di cui non si vede il volto, è colpito da punti di répere per mapparne il trasferimento su marmo come fossero ferite di san Sebastiano e la sua duplice specchiante immagine lo rende un Dioscuro doppelganger. Anche delle Celate è negata l’identità, anonime presenze decapitate, fantasime sibilline di guerrieri provenienti anch’esse da una matrice aulica, l’elmo a becco di passero del XVI secolo detto di Attila conservato in palazzo ducale a Venezia (già allestite in rosso al Convento dei SS. Cosma e Damiano).
Se i pali in vetro molato come lance o giavellotti di Accumulo sono trattenuti dal tubolare di gomma in una sfida tra materie trasformate, forgiate dal calore, simili ad un oggetto di design, le Blade sono lame sorrette ma anche trattenute, sacro graal e Maiastre acuminate, strumento di staglievolezza letale ma anche messo in mostra, esposte nella loro delicata essenza di singola combinazione di sfumature e compagne dei cunei Enlightments di vetro stampato che trapassano il ferro, simili alle strutture installative site specific Percer-Voir, in qualità di illuminazioni. La prova di forza e abilità del video Rivoluzioni in cui Andrea Morucchio rotea una barra di vetro lucido come una spada magica da torneo, come in un cosmogonico moto di rivoluzione dei pianeti, si infrange ciclicamente per la necessità di un eterno ritorno, di un rinnovamento che si compie attraverso la liberazione di energia, accompagnato dal rumore che, come in Thinking of me di Bruce Nauman, produce un cortocircuito tra lo spazio e la realtà e nel suono che si ripete monotono amplia voci che vengono dall’inconscio e attraversano spazi incogniti.
Se già nelle sue foto luci e ombre erano attivatori di costruzione dell’immagine, laddove gli stacchi di colore diventano tuffi nella coscienza del momento fermato per sempre e i fondi recessi scenografici bui, profondi, spesso assoluti, dove è palpabile la notte, ora i soggetti divenuti sculture per Back in black cercano il monocromo per favorire la concentrazione dello sguardo, come in Eidetic Bush (2003), realizzato durante la residenza in Tasmania (Australia), in cui gli alberi incendiati vengono vivificati solo dalla morsa di una spira in gesso che è anche abbraccio commosso, addolorato per la perdita del bosco e la nefanda politica coloniale.
L’opalescenza del nero, leit motiv e sottofondo segreto, conduce ad un uso del vetro come elemento scultoreo, contrappasso e richiamo al cimento tra arti maggiori e decorative, nel solco di una tradizione veneziana che ha tra i suoi acme alcune creazioni tenebrose in vetro di Carlo Scarpa, prototipi talmente particolari che non si riuscirà più a riprodurre per le difficoltà tecniche e che occupano un’intera sala della biennale del 1940, ma che ha anche nuova linfa in una generazione di giovani artisti veneziani creatori di interessanti espressioni che suggeriscono il divenire di forme naturali. Le essenze vetrose di Morucchio sono aggressivi strumenti acuminati, ma sono al contempo sopraffatte dalla loro fragile natura e sostenute da strutture-supporto che le imprigionano e le contengono come restrizioni, in un modo così particolare da offrire loro anche un motivo di fuga, esprimendo un dinamismo di scontro-confronto tra forze dualistiche delle materie, come dice Matthew Barney del proprio operare, quando indica come non abbia fatto altro che reinterpretare a suo modo “il processo vitale che, in ognuno di noi, porta necessariamente una trasformazione”, raccontando “il modo in cui una forma combatte per trovare una propria definizione".
La stanza di Ca’ Pesaro di Morucchio vuol divenire ambiente, spazio di percezione in cui sopravvive l’emozione mentre le opere paiono negare la tattilità dei differenti componenti e divengono intoccabili, in bilico tra le loro molte essenze, come contraddittoria arma linguistica. Il nero, che nella storia ha interpretato così tante sfumature dell’essere, dall’atto della creazione al lutto alla follia, nel suo essere un colore nobile e profondo, così difficile da ottenere come nei velluti dei nobiluomini rinascimentali, è assenza di colore, pura forma significante, colore infero ma anche magico, generativo caos proteiforme da cui tutto si genera, come un passaggio di stato in cui avviene una liberazione dello spirito ed è sempre stato amato dagli artisti per la sua irreversibile determinatezza, dal disegnatore di animali delle grotte preistoriche all’azzeramento di Malevic. Forse vale anche per Andrea Morucchio quel che scriveva Sol Lewitt in una delle sue Sentences on Conceptual Art, quando affermava che gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti e giungono a conclusioni che la logica non può afferrare: sono i giudizi irrazionali che portano a nuove esperienze.