Alla mostra La fine del nuovo, Andrea Morucchio propone il trittico fotografico Factory #12 (2014), un soggetto di paesaggio industriale a Porto Marghera (Venezia), che tratta della zona di stoccaggio e lavorazione del carbon coke. Morucchio, che si definisce senza esitare come un fotografo, è anche un artista versatile, la cui opera si è costruita a base di esperimentazioni e sovrapposizioni con diverse discipline, tra cui la scultura, la installazione multimediale e la performance. Ma oltre ai mezzi espressivi, dalla sua traiettoria artistica complessiva traspare un interesse per la riflessione attraverso la creazione di immagini, che transitano fra quella lettura analitica della realtà, -come metodo di ricerca-, e l’uso procedimentale, concettuale della fotografia, -rivelandone le distorsioni inevitabili che accompagnano il processo di vedere ed interpretare l’immagine-. Morucchio coltiva un pensiero della fotografia multifocale o la curiosità sperimentale per i processi percettivi della forma nell’immagine: dislocazione dei segni visivi, spazi reinventati, figurazioni riconfigurate, in cui le coordinate spazio-temporali diventano superflue. La percezione onirica delle sue fotografie è un binario fra territorio mentale e metafisico, e condizione sacralizzata dello spazio, mai privi di un coinvolgimento soggettivo. L’opera fotografica di Andrea Morucchio è sintesi organica e riscrittura di un linguaggio artistico preesistente, che in modo dialogico, da voce alla integrità dell’artista, se per questa intendiamo quell’essere uniti al propio pensiero, da cui ne risultano pensieri integri resi immagine.
Nella serie Porto Marghera (2010-2015), a cui appartiene anche Factory, il fotografo indaga sulla dispersione metafisica del territorio urbano ed il paesaggio industriale. La morfologia della fabbrica e il mondo della tecnologia, che aveva affascinato a gli artisti dell' avanguardia, appare oggi come la lastra di una rivoluzione remota, l'eco delle quale ci parla di forza e dramma umano di altri tempi. Il tardo-capitalismo ha condannato quel paesaggio assorto a rinnovarsi o morire, e assistiamo malinconicamente alla metamorfosi del monumento in rovina. Questo pone la necessità di aprire la strada verso una comprensione, una interpretazione e una proposizione del termine paesaggio in una direzione ancora da esplorare, che nasconde un grande potenziale come già svelarono molti artisti della Land Art, i quali mai rimasero ai margini della questione industriale, stabilendo un rapporto molto più importante di quello che solitamente si conosce fra natura, arte, paesaggio e industria. Come in loro, analizzare l'opera fotografica di Morucchio costituisce un'opportunità per imparare dalla sua forma ad avvicinarsi al territorio e al paesaggio, per riflettere e reinterpretare la natura dei paesaggi industriali attraverso un riposizionamento del modo di guardare, con la finalità di potenziare il valore culturale che questi paesaggi della memoria industriale possiedono.
Un paesaggio industriale inteso come deposito di archeologie culturali, storiche, umane, fisiche e materiali. Dalla sua estetica ed enigmaticità Morucchio trae inspirazione per riprogettarne una identità visiva, antropologica, come corpo stesso dell’immagine. Isolamento, spettralità e straniamento, diventano formanti figurativi ed intervento critico sulla fenomenologia del “non luogo”. Un paesaggio industriale interpretato da Morucchio come “lieu de mémoire”, in cui l’esperienza del luogo diventa profondità non comune, quindi privata, e in cui la congiunzione fra differenze e ripetizioni gioca con l’apparizione di una lontananza, o il sintomo del visivo. Nelle sequenze fotografiche di Morucchio, si scopre che gli spazi tra le immagini, -gli interstizi-, non si limitano ad un ruolo inerte di separazione, ma diventano una interzona dove l’ibridazione è investimento semantico: la memoria e l’inconscio, la polisemia di tempi e spazi, l’astrazione e l’ambiguità del luogo, i ritmi ed i silenzi, l’isolamento e l’alter-realtà. Un’atmosfera irreale e metafisica in cui lui si trova immerso, e che diventa stimolo e chiave di lettura per interpretare fotograficamente il territorio, facendo emergere una nuova visione del reale che eleva il “non luogo” di una zona industriale a luogo con un’identità piena e intellegibile.
In Factory, non si tratta di una semplice documentazione della superficie delle cose, della loro apparenza esterna, bensí di scrutare il territorio come piattaforma storica, come scenario di conflitti, e come configurazione d' identità; provocare la interazione del prima e del dopo, dell'ancora funzionale e dell'inutile; constatare lo sconcerto per la vitalità industriale con la malinconia per la sua decadenza, ed il contrasto dei suoi monumenti più splendenti con i vestigia più umili. Nelle serie fotografiche di Porto Marghera, l’intervento critico di Morucchio si concentra sulla riflessione fenomenologica dell’estetica e l’enigma del confine, nella contemporaneità: la dispersione dei paraggi urbani e la solitudine della rovina industriale, nel tentativo di ridare loro un’identità, che ne superi la crisi. Sulla loro dimensione incognita, statica, inconscia e indefinita, Morucchio esercita una riprogettazione antropologica: architettura, territorio e paesaggio sono ora la struttura corporea dell’immagine. Attraverso un parametro dialettico, apre lo spettacolo oggettivabile ad una trascendenza discontinua del reale, e ne attiva quella “tensione” mentale ed inconscia che ci fa “vedere il mondo”.
Sono ancora tanti gli occhi che rimangono offuscati, bloccati dalla complessità di questi paesaggi, impossibilitati a vederne la radicale semplicità, la bellezza di questi territori contenuta nella sobrietà, nella funzionalità, nella paesaggistica ignara che ci ha lasciato l’ industria, e negli spazi carichi di sensibilità estetica che hanno dato forma ad un'opera collettiva e, in molti casi, irrazionale e rischiosa. Una cecità che si spera col tempo sparisca, in favore di uno sguardo che ritorni al luogo e che ne riconosca la bellezza, e che richiami ai suoi valori storici, culturali ed estetici, svelandone le qualità che lo rendono possessore di una identità propria, specifica, come paesaggio culturale. Diventa allora necessario, il guardare di più, il guardare oltre, il guardare in modo diverso. Creare quella tensione della quale Walter Benjamin parlava, riguardo alla produzione di Baudelaire, fra “una sensibilità molto acuta e una contemplazione molto concentrata”. In definitiva, invocare un riposizionamento nel modo di vedere, che non è ancora, per il momento, accaduto.
Questa, per ora, terra di nessuno, blandisce l'artista responsabile con il ruolo di demiurgo e lo porta a seminare dubbi, distruggere certezze, annichilire convinzioni per edificare una sensibilità e un pensiero nuovi. Come dichiara proprio Morucchio: “una operazione non semplice, perchè solo alcuni scatti caratterizzati da una particolare forza espressiva legata alla sinergia degli elementi inquadrati – volumi, forme, stratificazioni architettoniche e tracce immateriali di una presenza umana – oltre a svelare l’identità antropologica dell’immagine possono ambire a riprogettarne un’identità visiva”. Oggi, quando ci confrontiamo con il compito di integrare quei paesaggi generati dalla decadenza industriale nel paesaggio contemporaneo, lo sguardo appasionato che lancia Andrea Morucchio sembra davvero possedere una capacità unica, -sia per il rigore eseguito nel suol lavoro, come per la ricerca formale e intellettuale alla base di ogni progetto-, per rieducare lo sguardo, e con questo, lanciare la mente più in là del visibile.