ADtoday | 2014

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    ADtoday | Italia Obiettivo Architettura n.8 Andrea Morucchio | intervista di Sonia S.Braga
    


    
    Com’è cambiato il modo di fotografare l’architettura rispetto a trent’anni fa?
    
    Gabriele Basilico con “Milano ritratti di fabbriche” 1978-1980 ha prodotto un corpo di lavori fotografici di architettura in contesti industriali e di periferie urbane che sono a mio parere un paradigma nel “modo di fotografare l’architettura”. Basilico è il maestro indiscusso di questo genere fotografico, trent’anni fa ha dato una nuova lettura dello spazio architettonico determinando un’approccio formale ed estetico ancora attuale e seguito da chi opera in questo contesto della fotografia. La lettura delle sue immagini con l’occhio di chi come me si cimenta anche con la fotografia urbana ed industriale fa apparire evidenti alcuni elementi fondamentali nella costruzione della foto di architettura. Quindi se per “fotografare l’architettura” intendiamo quel settore della fotografia che si occupa di riprodurre spazi urbani in modo oggettivo con capacità/sensibilità compositiva per me non è cambiato il modo di realizzare questo genere di fotografia, diversamente dovremmo utilizzare un’altra definizione. Azzardo un parallelismo, come nella musica classica è necessaria l’intermediazione di un interprete, il direttore d’orchestra, che seguendo dei parametri decifra i segni nello spartito e li rende suoni e melodie per il pubblico così il fotografo di architettura è l’interprete dello spazio visivo che nel momento dell’inquadratura viene sondato misurato, decifrato attraverso dei dettami compositivi per far emergere quegli elementi che determinano la qualità formale ed estetica di un’immagine di architettura.
    
    Spesso gli architetti avevano un fotografo di fiducia che documentava i loro lavori. È così ancora oggi?
    
    Prima di iniziare la mia carriera nell’arte contemporanea la mia professione era di fotografo specializzato in still life di opere d’arte e oggetti di design. Per alcuni artisti e progettisti ero il “fotografo di fiducia” in quanto oltre ad ottenere un’immagine oggettiva dell’opera riuscivo in qualche modo a rendere visibile lo spirito o il carattere del prodotto. Allo stesso modo alcuni architetti si affidano a particolari fotografi che riescono a far altrettanto con le loro opre architettoniche. Sicuramente oggi, sul fronte della committenza pubblica della documentazione fotografica di un territorio qualcosa è cambiato se pensiamo che, per esempio, agli inizi degli anni 70 l’amministrazione comunale di Bologna commissionava a Paolo Monti, uno dei maggiori fotografi italiani, un censimento fotografico del centro storico come strumento di programmazione urbanistica. Altri tempi quando nelle istituzioni pubbliche esistevano funzionari culturalmente preparati che sceglievano le collaborazioni e commissionavano un progetto in base al merito e non ad altri criteri.
    
    Quali sono le scelte stilistiche ricorrenti nella fotografia di architettura contemporanea?
    
    Restando in Italia mi sembra che, negli ultimi anni tra i fotografi più giovani si utilizzi molto il genere “colore sbiadito alla Guidi” mentre fino a poco tempo fa andava alla grande la caratteristica “sfocatura controllata alla Barbieri”.
    
    Insomma in Italia le scelte stilistiche ricorrenti o mainstream nella fotografia d’architettura, ma anche nella fotografia come espressione d’arte contemporanea, eccetto rari casi non sono il frutto di una ricerca personale espressione di una originalità innovativa dell’autore ma di una pedissequa reiterazione di scelte stilistiche di alcuni autori affermati.
    
    Quali sono i suoi maestri di riferimento nella fotografia di architettura?
    
    Autori italiani che hanno dato una personale ed innovativa visione della fotografia d’architettura - e non solo - che possiamo definire maestri per me sono Paolo Monti, Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Mario Cresci, ma anche tra i relativamente giovani il veneziano Luca Campigotto.
    
    Come ha iniziato a fotografare?
    
    Mio padre era fotografo del Gazzettino di Venezia per cui fin da piccolo ho iniziato a maneggiare macchine fotografiche. Ho praticamente fotografato da sempre facendone la mia professione con diverse committenze dal ritratto allo still life. Per quanto riguarda la fotografia come passione e ricerca ho sempre fotografato istintivamente, negli anni novanta concepivo la fotografia solo come reportage, poi dopo anni in cui mi sono dedicato all’arte contemporanea dal 2008 ho ripreso a fotografare scegliendo come soggetto principale il paesaggio urbano ed industriale attraverso un’ approccio visivo influenzato dalla mia esperienza di artista contemporaneo.
    
    Il termine “architettura” non ha un significato univoco. Include piuttosto tematiche differenti, circostanza che non può non influenzare la scelta del soggetto. Ce n’è qualcuno che preferisce?
    
    Sono Veneziano e ho da sempre fotografato la mia città ma negli ultimi anni cerco delle situazioni architettoniche antitetiche alla complessa e articolata architettura veneziana. Negli ultimi anni i miei soggetti preferiti sono la zona industriale di Porto Marghera e i quartieri periferici di Venezia come Sacca Fisola, Santa Marta, la Marittima dove l’architettura abitativa di tipo popolare risale agli anni cinquanta - sessanta.
    
    Che tecnica preferisce utilizzare e quale formato/i predilige per la stampa?
    
    Ora uso solo il digitale, nell’era analogica usavo la mitica Hasselblad Super Wide 6x6 o la Mamiya 6x7 con ottica 80 mm. Il formato delle stampe che utilizzo per l’allestimento delle mostre è minimo 90x60 cm
    
    Bianco e nero o colore? Cosa funziona di più per le foto di architettura?
    
    Chiaramente è più efficace il bianco e nero in quanto l’assenza dell’elemento cromatico dall’immagine permette di enfatizzare i volumi e le linee delle strutture, i vuoti e i pieni ovvero le caratteristiche che danno forza compositiva ad un’immagine di architettura. Come dire tolgo l’elemento “superficiale” il colore per estrapolare la sostanza del soggetto in maniera più drammatica, diretta e plastica. Ovviamente questo fattore dettrattivo dell’elemento cromatico vale per tutti i generi di fotografia, dal ritratto al reportage, sempre che si abbia la consapevolezza e la capacità di vedere la realtà nel momento dell’inquadratura immersa in una scala di grigi. Io fotografo a colori e quando utilizzo gli elementi cromatici dello spazio inquadrato li uso come uno degli elementi della composizione per definire zone di contrasto dai margini netti e quindi con una funzione “costruttiva” dell’immagine in altri casi assieme al bilanciamento degli elementi architettonici in gioco, alle linee di fuga, alla scala tra zone d’ombra e le luci alte il colore diventa quell’elemento in più, l’ingrediente del cocktail che infonde lo spirito o meglio l’essenza ad un’immagine che determina un coinvolgimento emotivo di chi osserva l’opera fotografica diverso da quello che potrebbe dare un’immagine altrettanto valida in bianco e nero.
    
    Le foto di architettura devono essere rigorosamente senza persone?
    
    No anzi, per esempio le persone che appaiono in alcuni mie scatti d’architettura, da soggetti principali della narrazione dell’immagine che erano nelle mie foto di reportage degli anni 90, diventano uno degli elementi della composizione. L’elemento umano si integra o si scontra con il paesaggio architettonico e questa interazione a volte conferisce all’immagine una forza espressiva nettamente superiore ad uno scatto privo di persone. In alcuni casi uso una serie di scatti creando dei dittici o trittici in cui appare in sequenza il movimento della persona che spostandosi nella stessa inquadratura dello spazio architettonico determina un’immagine che esprime una sensazione di “statica dinamicità”.
    
    Guardare l’architettura attraverso l’obiettivo: oggi prevale la componente documentaria oppure un’indagine evocativa, maggiormente orientata verso l’interpretazione?
    
    Operando nell’arte contemporanea il mio sguardo al paesaggio urbano o industriale è naturalmente condizionato da un’attitudine interpretativa della realtà che scelgo di fotografare.
    
    Documentare l’architettura in sé e per sé. È ancora possibile oppure è inscindibile dalla volontà di uno sguardo critico, in “presa diretta” sulla contraddittorietà del reale?
    
    Anche l’architettura a volte in sè e per sè esprime una forte carica di contraddittorietà, penso per fare un’esempio al Ponte della Costituzione di Santiago Calatrava qui a Venezia, documentandolo anche in maniera totalmente oggettiva non puoi nascondere la contraddittorietà di questo progetto rispetto al contesto urbano in cui è stato collocato.
    
    Nei suoi scatti com’è trattato, se presente, il conflitto tra natura e cultura?
    
    Non ho trattato questo tema in modo specifico nella fotografia in quanto tale ma per un progetto installativo multimediale “Eidetic Bush” che ho realizzato in Australia nel 2003. L’elemento base dell’installazione è la proiezione di alcuni scatti fotografici - trasformati in video animazioni e musicati da un brano di Luigi Nono - eseguiti in aree boschive incendiate dove sui tronchi degli alberi combusti avevo inciso durante un’azione performativa delle spirali. In questo caso ho utilizzato la fotografia come base per un progetto installativo multimediale che affronta il rapporto/conflitto tra natura e cultura attraverso una personale interpretazione della cultura aborigena profondamente connessa alla natura e il paesaggio delle foreste incendiate della Tasmania.
    
    Ci descriva la campagna fotografica che l’ha impegnato di più negli ultimi anni.
    
    Negli ultimi anni ho sviluppato una ricerca fotografica del territorio industriale di Porto Marghera cercando di trovare un filo conduttore nella scelta dei soggetti e delle inquadrature che armonizzi l’estrema diversità di questo paesaggio che va dagli ampi spazi delle banchine per lo scarico delle materie prime alle fabbriche in disuso dalle forme architettoniche più disparate.
    
    Scatto singolo o body of works? Cos’è più efficace per realizzare un progetto? Si può parlare di una precisa scelta linguistica?
    
    Per me un progetto è soddisfacente quando fa emergere il genius loci, lo spirito e l’dentità del luogo fotografato. Ovviamente una serie di scatti sono più efficaci nel riuscire a cogliere e quindi palesare all’osservatore delle immagini lo spirito del luogo rispetto allo scatto singolo.
    
    Metropoli, periferie, junk spaces, aree interstiziali... Sceglierei il fascino indiscreto di...
    
    Continuerei a scegliere periferie e aree interstiziali.
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